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La rinegoziazione dei contratti di durata ed i poteri del giudice.



Alla luce delle conseguenze della pandemia sulle obbligazioni contrattuali, diventa attuale una riflessione che trae spunto dal disegno di legge presentato nel febbraio 2019 e recante una delega al Governo per la revisione ed integrazione del codice civile in più ambiti, tra i quali la disciplina della rinegoziazione dei contratti di durata e l’intervento del giudice in caso di perdurante disaccordo delle parti.
La rilevanza del tema ci induce non tanto ad approfondire l’ambito di applicazione dell’istituto previsto dall’art. 1467 c.c. quanto, piuttosto, ad esporre alcune considerazioni circa l’attualità della proposta di legge, tanto con riferimento alla peculiarità dell’odierno stato di emergenza, quanto alla necessità di adeguare le leggi in materia contrattuale alle esigenze che, in epoca recente, si stanno dirigendo verso esigenze di crescente flessibilità ed adattabilità. La normativa vigente, nell’ipotesi di incolpevole sopravvenienza di eventi non prevedibili che rendono eccessivo l’onere del contratto, consente di invocare la risoluzione del contratto. Qualora l’altro contraente lo richieda, le parti possono operare un tentativo di ridefinizione degli obblighi previsti dall’accordo. Tale ultima ipotesi è meramente facoltativa e viene lasciato ampio spazio alla discrezionalità delle parti, che ne potrebbero pertanto trarre indebito vantaggio tramite una lettura eccessivamente minuziosa delle proprie ragioni, senza tenere conto della necessità di mantenere l’equilibrio del contratto.
Con il chiaro intento di rafforzare la conservazione dei contratti in essere ed al fine di evitare sfruttamenti delle situazioni al limite della buona fede da parte del contraente non eccessivamente onerato, è stato quindi presentato un disegno di legge per l’estensione dell’attuale dettato normativo al fine di imporre alle parti l’onere di rinegoziare in buona fede a tal punto che, in caso di mancato accordo, sia possibile chiedere in giudizio l’adeguamento del contratto in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni in modo conforme a quanto originariamente convenuto tra le parti.
Nonostante il tempo trascorso, è noto che, ad oggi, il codice civile non è stato modificato ed anche l’art. 1467 c.c. è rimasto tale e quale. Ciononostante, il tema merita un accenno: se le norme fossero state modificate secondo i principi e criteri esplicitati nel disegno di legge, la gestione di parecchi contratti di durata sarebbe, oggi, forse più agevole e meno squilibrata tra le parti, in quanto il solo timore di subire l’imposizione giudiziale di nuovi termini contrattuali, magari non pienamente graditi, vale certamente come sprone per una condotta più accurata ed ispirata alla buona fede. Ciò, ovviamente, senza tenere conto dei tempi della nostra giustizia: in questa sede, tuttavia, si vuole approfondire il merito della norma proposta al Governo e non già gli aspetti legati alla sua concreta attuazione.
La valutazione in merito alla potenziale efficacia della proposta di legge deve tenere inizialmente conto dell’attuale normativa, che lascia a disposizione delle parti un modesto ventaglio di soluzioni: l’unica alternativa alla risoluzione del contratto è lasciata nelle mani della parte non onerata, che potrà quindi orientare le modifiche al contratto secondo la propria convenienza. L’introduzione della figura del giudice tra i protagonisti del processo di revisione, per contro, potrebbe incoraggiare la responsabilizzazione delle parti, così obbligate a dialogare per il comune interesse, culminante nella conservazione del rapporto contrattuale e nella modifica dello stesso al fine di riequilibrare gli effetti di eventi straordinari.
Ovviamente la previsione di un obbligo legale di rinegoziazione non è esente da critiche e perplessità: la prima e principale censura si fonda sulla difficoltà di concepire un intervento giudiziale che limiti l’autonomia privata. Ciò appare ad alcuni tanto più inopportuno allorché, come in questo caso, l’intervento del giudice si verrebbe a concretizzare non tanto con la rigida applicazione di criteri e parametri convenzionali e definiti, ma sulla base di un provvedimento assimilabile alla conciliazione e fondato sull’equità. Il secondo rilievo sottolinea che, già ora, l’eventuale trattativa volta alla revisione del contratto deve essere condotta nel rispetto del principio di buona fede e che, quindi, già sussiste un presupposto per ricorrere all’autorità nel caso di violazione di tale obbligo. Crediamo però che, per quanto riguarda tale seconda critica, la strada per poter sostenere la cattiva fede sia difficile da percorrere, a meno di atteggiamenti e condotte manifestamente contrari al diritto.
Ed allora, soprattutto nell’attuale momento storico, sarebbe opportuna una previsione che, lasciato inizialmente spazio, per un tempo ragionevole, all’autonomia dei contraenti e senza sospendere i rispettivi oneri fino al raggiungimento di un’intesa, possa eventualmente devolvere al giudice la successiva valutazione della pertinenza delle reciproche pretese, tenuto conto del precipuo interesse di tutto l’ordinamento a mantenere vivi gli effetti degli accordi contrattuali, seppur ricondotti ad equità.

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